Il quotidiano di Confindustria in crisi messo sul mercato. Andrea Bonomi di Investindustrial guida la cordata favorita all’acquisto, ma spuntano anche Pesenti e Regina. Intesa Sanpaolo non interessata direttamente
di Guido Talarico
La decisione del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, di mettere in vendita Il Sole 24 Ore, non ancora annunciata pubblicamente ma a quanto pare già assunta, denuncia l’esistenza di tre problemi diversi ma convergenti: 1) la crisi dell’editoria tradizionale; 2) la crisi di Confindustria; 3) la crisi dei sistemi di rappresentanza. Tre crisi che confluiscono in quel fiume in piena che è la decadenza dei pilastri sui quali si regge la nostra democrazia. Una Confindustria che non riesce più a mantenere e a far funzionare quello che per decadi è stato il suo maggiore strumento di pressione è infatti l’ulteriore indizio circa l’irrilevanza sopravvenuta di uno dei più vitali strumenti di rappresentanza del paese e dalla stessa categoria che ne è alle spalle.
Bonomi, la cui ruvidità dialettica e di modi mal rappresenta quel decisionismo efficace dell’impresa lombarda che fu e che per questo comincia a far vacillare la fiducia anche di quei capitani d’industria milanesi che questo presidente hanno portato al vertice, ha tuttavia le sue buone ragioni. La più forte è quella economica. Il Sole 24 Ore, come quasi tutta la stampa tradizionale, perde soldi a rotta di collo. Perdite pesanti che Confindustria, dopo aver già venduto i gioielli di famiglia, di fatto non sa più come coprire.
E di questo naturalmente Bonomi non ha alcuna responsabilità. La crisi dell’editoria, già ampiamente pronunciata dopo Lehman Brothers, negli ultimi tre anni ha subito un’accelerazione non ordinaria, quella che tipicamente segna la fine di un’epoca, la morte di un sistema produttivo. E da questo punto di vista i numeri sono eloquenti. Ricordiamo giusto qualche dato. Agcom ad esempio ci dice che nel periodo marzo 2016 – marzo 2020 in Italia le copie giornaliere cartacee complessivamente vendute dai principali editori si sono quasi dimezzate, passando da 2,2 a 1,2 milioni di unità. E all’editoria tradizionale non va bene neanche il digitale. Contestualmente infatti si registra un altro dato allarmante: le copie digitali risultano in netta flessione se si considera l’intero periodo (-24% punti percentuali). Stesso discorso vale per la pubblicità, che con il venduto in edicola, come è noto, rappresenta uno dei due centri di ricavo principale dell’editoria quotidiana. Secondo i dati della Nielsen siamo di fronte ad una flessione impressionante -21,8% per i quotidiani a fine luglio 2020 e -40,8% per i periodici.
Ancora qualche dato sulle vendite dei quotidiani aiuterà a capire la gravità della crisi che il settore sta vivendo. Su base quinquennale, come emerge confrontando i dati ufficiali di vendita, Adsnotizie rivela che La Repubblica ha perso il 54% di copie vendute e il 49% di diffusione totale, La Stampa il 51% di copie pagate e il 47% di diffusione, mentre il leader di mercato il Corriere della Sera ha perso meno terreno: il 37% delle copie pagate e il 28% di diffusione. Una vera ecatombe.
Il Sole 24 Ore, che questa crisi se la è bevuta tutta e sin dall’inizio, sconta anche il prezzo di ripetuti avvicendamenti nella gestione. Gestione che in più di un caso è apparsa a dir poco inadeguata. E anche su questo Bonomi, evidentemente, non ha responsabilità. Il suo ruolo comincia ora e comincia con la sua decisione di mettere in vendita il più grande sistema di comunicazione e propaganda dell’industria nazionale. E’ giusto farlo?
I numeri sono numeri e Bonomi (foto a destra) non può che rifarsi a quelli: benchè di recenti vi siano stati dei segnali di ripresa, il conto economico è in perdita, il debito aumenta, la cassa per fare nuovi aumenti di capitale non c’è. Escluso il coinvolgimento diretto degli associati, con formule tipo azionariato diffuso, perché la base si sa non ne vuole che sapere, non rimane che la vendita. Il punto dunque oggi sta nel vedere se Bonomi riuscirà veramente a vendere e se si a chi. Intanto la prima cosa che dovrà fare è portare il dossier agli organi di Confindustria. Passaggio non proprio facile. Poi c’è il tema della ristrutturazione. Tendenzialmente qialsiasi potenziale compratore vorrà che venga fatta prima della cessione. Insomma, Bonomi ha da fare un percorso anche formale i cui esiti non sono proprio scontati. Vediamo ora di capire come potrebbe andare a finire questa vicenda che riguarda tutto il mondo delle imprese e che, come dicevamo all’inizio, non è solo una questione imprenditoriale ma tocca molto concretamente il sistema della rappresentanza e dunque in una certa cospicua misura la normale vita democratica del paese.
Bonomi non ha molti potenziali acquirenti. E questo per tre motivi: servono molti soldi per ripianare le perdite e per rifinanziare la ripartenza, ma soprattutto il modello di business dei quotidiani non funziona più e la forza mediatica dello strumento è in decadimento. Chi dunque può avere interesse ad investire in una azienda con questo profilo, dove a contare è soltanto il blasone della testata e la qualità del corpo redazionale? Proprio per queste ragioni Bonomi sembra costretto a muoversi in un sentiero molto stretto. Deve vendere perché i numeri glielo impongono, ma potrà vendere solo a imprenditori che il sistema politico e quello delle imprese riconoscano come interlocutori credibili.
E chi può rispondere in Italia a questo profilo? L’indiziato numero uno ad oggi è Intesa Sanpaolo. E’ la banca di gran lunga più importante del paese, uscita ancor più rafforzata dall’acquisizione di UBI. E’ una delle principali in Europa e ha un solido legame con le imprese. Carlo Messina inoltre ha la credibilità e la statura per essere riconosciuto dal sistema come interlocutore autorevole e affidabile. Inoltre è forse il principale creditore del giornale. Ma Intesa Sanpaolo, già finanzia, sia in termini creditizi e che in termini pubblicitari, la maggior parte dei media italiani, avendo così una forte influenza su di questi. Gli serve veramente acquisire la maggioranza del quotidiano di Via Monterosa? La risposta è no. A quanto è dato di sapere, Messina non ha nessun interesse a giocare questa partita in prima persona. Il suo mestiere non è l’editore. Molto più probabile che qualora si formi qualche cordata d’imprese Intesa Sanpaolo faccia la sua parte di banca di sistema accordando parte dei finanziamenti necessari. Una operazione di fatto già realizzata per il Corriere della Sera. Ma non di più.
Ma prima di vedere quali possibili cordate siano in grado di scendere in campo cerchiamo di capire se vi siano potenziali acquirenti diretti del Sole. Dopo l’operazione che gli ha garantito di prendere il controllo del gruppo Repubblica, John Elkann (foto a sinistra) viene sempre tirato in ballo ogni volta che si parla di editoria. Il perché è anche ovvio: la sua Exor è molto liquida, la sua Fda e i suoi variegati interessi necessitano sempre di un buon supporto mediatico. Ma questa volta John pare abbia risposto picche. Con il gruppo Repubblica la storia è stata diversa. Elkann ha riportanto a casa il controllo del giornale del nonno, vale a dire la Stampa, e conquistato la maggioranza di un gruppo che tra i fondatori aveva avuto Carlo Caracciolo, fratello dell’amatissima nonna, Marella. Senza contare che l’operazione si è chiusa con esporsi molto ridotti che verranno, questo è lo schema con cui è stata concepita l’acquisizione, recuperati prima con la vendita degli asset meno strategici (alcuni giornali locali, in parte già dismessi, e le radio) poi tra un paio d’anni, a piani di prepensionamento e di ristrutturazione aziendale conclusi, con la quotazione in borsa del gruppo. Insomma, il Presidente di Exor, cogliendo la difficoltà finanziaria dei De Benedetti, ha fatto una operazione brillante in termini economici e considerevole in termini familiari, pagando un tributo d’affetto alle persone che più di tutte hanno influito positivamente sulla sua vita, vale a dire Gianni e Marella Agnelli. Nulla di tutto questo potrà avvenire con il Sole. Anzi in quel caso è tutto il contrario: il quotidiano confindustriale sarebbe una sfida economica molto rischiosa non solo economicamente ma anche in termini di relazioni con la politica e con Confindustria dalla quale FCA è fuori. Dunque al momento sembrerebbe che non ci sia niente da fare. Ma il mondo degli affari insegna che le porte non sono mai del tutto chiuse. Il che significa che se le condizioni dovvessere essere particolarmente favorevoli anche Elkann potrebbe rientrare nella partita, puntando magari ad un rilancio stile The Economist, testata di cui il Presidente di Exor è già azionista.
Poi vi sono gli altri soliti campioni di solidità economica. Su tutti Franco Gaetano Caltagirone, finanziere ed imprenditore di successo (Generali, Mediobanca, Cementir) ma anche editore del Messaggero. Tuttavia Franchino, come lo chiamano gli amici, è una vecchissima volpe che conosce bene le insidie e i pochi vantaggi di una acquisizione come questa dunque se ne sta alla larga. Per ragioni analoghe, oltre che di antitrust, dall’operazione Sole se ne sta lontana anche la famiglia Berlusconi. In altri tempi il Cavaliere sarebbe stato certamente più attivo, ma Marina, come dimostra la vendita del blasonatissimo “Panorama” alla cifra simbolica di un euro, è interessata di più alle ragioni del conto economico che a quelle di potere.
Insomma, di singoli cavalieri bianchi all’orizzonte Bonomi ad oggi ne vede ancora pochi, per non dire nessuno. L’unica strada è dunque quella della cordata. Qui le possibilità aumentano di un pochino. A quanto filtra da ambienti confindustriali milanesi, Bonomi ha provato a stimolare vari possibili aggregatori d’interesse. Tra questi, personalità di spicco dell’industria lombarda, qualche fondo e anche qualche grande studio legale. Ad oggi però si intravede un solo interlocutore possibile. Ed è un suo omonimo, ma non parente, quell’Andrea Bonomi a capo di Investindustrial, un fondo specializzato in salvataggi e rilanci di marchi celebri (ad esempio Ducati e Gardaland). Andrea è un figlio della buona borghesia milanese cresciuto a pane e acquisizioni. E’ liquido, capace e ha le connessioni giuste. Ma è a capo di un fondo. E i fondi, si sa, comprano bene per poi rivendere meglio dopo pochi anni. Uno scenario difficile da immaginare per una azienda editoriale in perdita ormai cronica. Ma Andrea pare abbia dato una sua disponibilità a gestire il dossier Sole 24 Ore. Con un prezzo di vendita fissato in una cifra oscillante tra 60 e 90 milioni di euro, pare che Andrea Bonomi stia tentando di mettere su una cordata che comprenda una serie di soci finanziatori. Tra questi Intesa Sanpaolo, come player creditizio spinto a convertire i suoi prestiti in capitale, e poi una serie di privati. Andrea vorrebbe che una parte la facessero proprio quei grandi industriali lombardi che hanno aiutato Carlo Bonomi a salire sullo scranno più alto di Confindustria, vale a dire Marco Tronchetti Provera, Gianfelice Rocca e Diana Bracco. Dall’altro alcuni esponenti di Assolombarda, l’associazione da cui proviene l’attuale presidente di Confindustria.
Insomma, Andrea Bonomi, pare sia disposto a fare da pivot all’operazione dandogli un taglio non da salvataggio di un’impresa decotta ma di rilancio a condizione che i veri centri di potere di questa Confindustria facciano la loro parte. Ma quella di Andrea Bonomi (foto a destra) potrebbe non essere la sola aquadra in campo. Paolo Madron ha anticipato un interesse di Carlo Pesenti, e con lui del fondo Clessidra, a organizzare una cordata per l’acquisizione del Sole. Pesenti ha poi smentito l’indiscrezione, ma questo è uno di quei casi in cui la smentita è di prassi. Atri rumors parlano di una terza cordata alla quale pare stia lavorando Aurelio Regina, che di Confindustria ne sa qualcosa, ma questa terza al momento appare più come un intento che come una ipotesi reale.
In questa fase è difficile dire quale sia la soluzione che alla fine prevarrà. Tutti i soggetti in campo hanno frecce nelle proprie faretre potenti a sufficienza per centrare l’obiettivo. Il problema non sono affatto i capitali necessari a concludere l’operazione, modesti per tutti i protagonisti, ma il declino di un modello di business, quello dei giornali tradizionali, che ormai appare destinato all’irrilevanza. In altre parole, chi prenderà questa patata bollente sa che corre il rischio di dover fare un’operazione lacrime e sangue, con licenziamenti e tagli di ogni genere, per magari poi restare con il famoso cerino in mano. “Cui prodest”, dicevano i latini. A chi porta giovamento questa operazione? Di sicuro a Carlo Bonomi, che deve affrontare e risolvere una spinosa questione interna di Confindustria. Un eventuale esito sfavorevole della trattativa condizionerebbe negativamente la sua presidenza, partita oggettivamente non proprio con il piede giusto. E gioverebbe sicuramente al paese che non può permettersi di avere una categoria sociale decisiva, qual è quella degli imprenditori, indebolita e impossibilitata a difendere al meglio i propri interessi in un momento tanto cruciale per il sistema economico delle imprese.
L’esito di questa operazione ci dirà dunque qualcosa che va al di là delle difficoltà di un’azienda in crisi. Ci farà capire meglio quale caratura ha la presidenza in carica, se ci sono ancora mani forti alle spalle di Confindustria capaci di assumersi l’onere di operazioni complicate. Capiremo anche in qualche modo se all’evidente debolezza della politica corrisponde anche un’analoga debolezza dell’industria, se il nostro sistema democratico può ancora disporre degli anticorpi necessari a garantirsi un futuro. “Il potere –diceva Enrico Cuccia – è cosa che va maneggiata con cura, se non vuoi rimanerne vittima”. E di queste tempi la cura giusta è una merce rara.
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